Questa mattina mi sono svegliato stanco e desideroso di altro sonno. Ma ero di buon umore, i sorrisi e l’allegria di À ieri sera mi sono rimasti dentro come un sorso di vin brulé davanti ad un falò in una fredda notte d’inverno.
All’improvviso, tra Fidene e la Bufalotta, ho avuto una gran voglia di ascoltare e cantare una canzone che da sempre emerge quando sto facendo un bilancio di assestamento della mia esistenza. Come sempre, questa sensazione arriva improvvisa, inaspettata e quasi fastidiosa, come un “ruttino represso in ascensore” (cit.). Non so ancora cosa mostreranno i libri contabili del Tracca aggiornati a oggi, ho parecchie voci di ammortamento che non mi sono del tutto chiare.
Però la canzone era sul mio ipod e quindi l’ho messa su e me la sono cantata nella lenta marcia tra Via Fucini e Viale Kant. È una canzone ascrivibile al genere “nostalgia di casa di un rocker perennemente in giro per il mondo”; ce ne sono centinaia, mi vengono in mente su due piedi “Coming Home” degli Scorpions e “Home Sweet Home” dei Motley Crue (la mia rozza subcultura di metallaro anni 80 che riemerge…). Il pezzo in questione appartiene sempre a quel periodo e non è certamente il pezzo migliore scritto dagli Iron Maiden, anzi è decisamente commerciale rispetto alla loro produzione antecedente il 1986. Ma il refrain del pezzo mi ha sempre scosso delle corde interiori che “neanch’io so come” (ari-cit.). Tradotto rozzamente dice:
“Allora, cerca di capire: non sprecare il tuo tempo rimpiangendo quegli anni perduti! Solleva il viso, lotta e renditi conto di stare vivendo i tuoi anni migliori!”.