Ho appena finito di vedere “The Rocky Horror Picture Show – Let's do the time warp again” (che da qui in avanti chiamerò per praticità solo “Let's do the time warp again”) e non posso non scrivere le mie impressioni a caldissimo. Chi non lo ha ancora visto e non vuole essere influenzato dal mio giudizio è invitato a non andare oltre nella lettura. Per chi resta... “enter at your own risk”!!!
Come avevo immaginato mesi fa, quando seppi che Tim Curry aveva accettato il ruolo del narratore per questo tv-remake del film più importante ed amato della mia vita, il sentirlo pronunciare, nel suo meraviglioso inglese incrinato dalle conseguenze dell'ictus che lo ha colpito nel 2013, la frase finale del film (che non a caso è da sempre accanto alla mia foto nella testata di questo ormai quasi silente blog...) mi ha fatto esplodere in un pianto liberatorio di pura, totale, commozione. Come mi è accaduto, del resto, alla fine di quasi ogni rappresentazione teatrale del Rocky Horror a cui ho assistito in vita mia – e ci sono numerosi testimoni che possono testimoniarlo. Ma stavolta l'emozione è stata enorme, perché con la sua presenza Tim Curry ha chiuso il cerchio di una storia che dura da 40 anni e allo stesso tempo lo ha riaperto per rilanciarlo nel futuro della storia dello showbiz, del costume, della cultura mondiali. È come se avesse afferrato un frisbee (o un boomerang, fate voi) che ha fatto il giro del pianeta migliaia e migliaia di volte e, dopo averlo tenuto in mano per un solo secondo, lo avesse fatto ripartire, stavolta forse davvero in direzione di Transexual, Transilvania.
“Let's do the time warp again” ha certamente alcuni limiti, che cercherò di elencare qui di seguito, ma il mio giudizio dopo la prima visione è certamente positivo, per alcuni aspetti molto e persino estremamente positivo. I limiti dello show sono tutti legati al fatto di essere un prodotto nato per la televisione, concepito per essere interrotto molte volte da spot pubblicitari durante la sua messa in onda su Fox. Il montaggio ne ha risentito in maniera consistente, con il risultato che, guardandolo senza pubblicità, alcuni stacchi e passaggi di scena risultano decisamente fastidiosi. Alcuni sono fatti davvero male, obiettivamente: non siamo al livello de “Gli occhi del cuore”, ma insomma... :). Le mie perplessità si fermano però qui.
Avendo visto il film originale per intero più di 60 volte e almeno 15/20 versioni teatrali differenti nel corso degli ultimi 30 anni, mi sono fatto questa opinione: “Let's do the time warp again” non va visto come un impossibile remake del film diretto da Jim Sharman nel 1975, ma come un grande omaggio al mondo che Richard O' Brien ha creato con la sua immaginazione qualche anno prima. Per moltissimi aspetti, pur seguendo molto fedelmente la trama e lo svolgimento del film originale, “Let's do the time warp again” è quasi una versione televisiva dello spettacolo teatrale originale The Rocky Horror Show (tanto per dirne una, il film è aperto da una Usherette che canta – benissimo - “Science fiction / Double Feature”, proprio come nella versione teatrale dello show), con molte soluzioni sceniche che sarebbero fantastiche per il teatro ed altre, come la presenza dei musicisti in scena, che rasentano il metateatro, portando fuori dalle quinte ciò che normalmente resta sempre dietro alle stesse.
Le ambientazioni sono quasi tutte azzeccate (l'unica a non essermi piaciuta è la sala di Time Warp / Sweet Transvestite), così come, a mio avviso, le reinterpretazioni musicali delle meravigliose canzoni originali, che sarebbe stato sciocco scimmiottare: valeva la pena di provare a cambiare e, anche se forse si sarebbe potuto osare un po' di più, nella media è stato fatto un buon lavoro in termini di arrangiamento ed esecuzione. Il tutto poteva essere registrato e mixato molto meglio, ma so di essere particolarmente esigente a riguardo.
Anche gli attori scelti per un compito così gravoso hanno fatto quasi tutti egregiamente il proprio dovere. Ho trovato adatti e convincenti Victoria Justice (Janet) e Ryan McCartan (Brad), brava nella sua ostentata sguaiatezza Annaleigh Ashford (Columbia), un po' troppo patinato Adam Lambert (Eddie), un po' sottotono Christina Milian (Magenta), mentre ho trovato davvero ottimi Reeve Carney (Riff-Raff), Staz Nair (Rocky), Ben Vereen (Dr. Scott).
Due righe su Laverne Cox: a parte l'inarrivabile Tim Curry del film originale, ho visto parecchi attori cimentarsi nella parte di Frank-N-Furter, diversissimi tra loro sia fisicamente che come cantanti. E Laverne Cox è stata semplicemente perfetta, perché già nella sua persona racchiude la sintesi ideale di ciò che Frank-N-Furter rappresenta nell'immaginario collettivo di chi ama il RHPS: una irresistibile, ingenua, sconfinata, sensuale, fragile e violenta voglia di libertà. Bravissima nella recitazione, a suo agio anche nelle parti cantate (eccetto forse, purtroppo, nel gran finale di “I'm going home”), ha interpretato il ruolo al meglio, sempre secondo il mio modestissimo parere.
Il vero (semplicissimo) colpo di genio dell'intero lavoro è però la presenza di alcune scene di audience participation: per me, che quelle cose le ho fatte tante e tante volte in sale di proiezione o in teatro, è stato un po' il riconoscimento del valore collettivo dell'opera RHS/RHPS, nata dalla mente di O' Brien ma divenuta patrimonio intimo di chiunque si sia imbattuto in essa e di essa si sia innamorata. E per tutti noi questo film-tv è un ulteriore tassello di una storia d'amore che non può finire.
The Rocky Horror Picture Show – Let's do the time warp again Regia di Kenny Ortega 2016 - Fox Television
“Quando hanno ancora voglia di fare i coglioni, sono sempre insuperabili”. Molte volte, in questi anni, io e molti altri fans degli Elio e le Storie Tese (EelST) ci siamo ripetuti questo mantra. Scottati e un po’ delusi dalle recenti prove discografiche e da concerti in cui traspariva spesso la loro presenza sul palco come se fosse un lavoro frustrante da portare a termine per puro senso del dovere, riacquistavamo dedizione ed entusiasmo quando si lanciavano in avventure diverse, specie quando traspariva la loro voglia di lavorare come ensemble. Pur con i suoi limiti, l’avventura televisiva del Musichione è stata emblematica in questo senso.
Quando Andrea “Pelle” Pellegrini, mio amico e fan sfegatato degli EelST (nonché fonico eccelso cresciuto alla scuola del leggendario Rodolfo “Foffo” Bianchi) mi ha comunicato, qualche mese fa, che stava lavorando in studio a una parte del nuovo album del complessino, sotto la guida di Foffo, le aspettative sono subito salite alle stelle, anche perché la prima cosa che il Pelle mi disse con entusiasmo incredibile fu: “stanno lavorando tutti insieme, suonano ore ed ore tutti insieme e stiamo registrando tutto”.
Ecco, quello che era mancato agli ultimi dischi in studio degli EelST era proprio questa dimensione di lavoro collettivo, di suonare insieme creando musica bella e divertendosi. Negli ultimi album era molto evidente che le singole parti erano state suonate in tempi diversi e poi assemblate tra loro, con una inevitabile caduta della qualità complessiva del suono dei dischi, indipendentemente da quanto duro lavoro e buona volontà potesse metterci chi i dischi li confezionava. E questa china, in qualche modo, deve essere stata percepita nettamente dagli Elii, che non a caso hanno chiamato come produttore esecutivo del nuovo lavoro quel Claudio Dentes (Otar Bolivecic) che aveva “inventato” il sound degli EelST, producendo i loro lavori dall’esordio del 1989 e per tutto il decennio successivo.
Il cambiamento di metodo ha determinato una svolta nettissima nella qualità del prodotto finale: Figgatta De Blanc (FDB) è un disco superbo, complessivamente (a mio modesto giudizio) il migliore album degli EelST degli ultimi 10-15 anni. Dico “complessivamente” perché alcuni dei limiti emersi nella costruzione delle loro canzoni negli ultimi tempi, primo tra tutti la minore cura riservata alla parte testuale e lirica, non sono del tutto superati in FDB, sebbene il salto in avanti rispetto al disco precedente sia enorme. Si sente, anche in questo caso, come il lavoro collettivo abbia influenzato la nascita dei pezzi e ne abbia determinato un livello qualitativo impressionante. Faccio un esempio: “Parla come mangi”, al momento una delle mie preferite per il suo tiro rock trascinante, non ha un testo strepitoso, anzi. Ma il fatto che ognuno degli Elii ne canti una strofa e aggiunga il suo pezzo al puzzle la rende una canzone che entrerà sicuramente nel cuore dei fan.
C’è un altro aspetto che mi preme sottolineare: il fatto che di questo disco, al momento della sua uscita, fosse nota solo una canzone (“Primo giorno di scuola”, oltre alle due sanremesi eseguite solo un paio di volte al festival), ha reso il suo primo ascolto molto più trepidante rispetto alle ultime volte, quando all’uscita di un album buona parte dei pezzi pubblicati era già stata suonata dal vivo o pubblicata come singolo tra un album e l’altro. Sarà una cosa da fan di musica del secolo scorso, ma io ho ascoltato FDB con orecchio vorace e voglioso di novità. Immagino che anche questa sia una scelta metodologica voluta da chi ha prodotto il disco, e non posso che essergliene grato.
Dal punto di vista della composizione musicale, gli Elio e le Storie Tese non sono secondi a nessuno nell’ambito della musica pop italiana, e questo non devono più dimostrarlo a chicchessia. Quello che rende davvero strepitosa la qualità musicale di FDB è che anche composizioni musicali di notevole complessità siano state pensate, “scritte”, eseguite e registrate con incredibile naturalezza. In FDB c’è una freschezza complessiva del prodotto discografico che non può lasciare indifferenti. Anzi, stupisce al primo ascolto e fa innamorare agli ascolti successivi. In questi giorni ci siamo detti, tra fans: è un disco che appena finisce ti viene voglia di rimetterlo su da capo e riascoltarlo per intero. Anche i pezzi che – inevitabilmente – piacciono meno di altri.
Si parte con l’intro Figgatta De Blanc, a.k.a. “Otar’s back”. Un rimando emblematico all’esordio degli EelST. Non un’autocitazione, ma un manifesto programmatico. Otar, come Vessicchio, ci dice: “Pronti, partenza, via!”
“Vacanza alternativa” parte in sesta marcia: erano anni che non ridevo così dopo solo una parola di una canzone degli EelST. Il pezzo ha un groove trascinante, aspetto che si ripropone più volte nel corso del disco. Elio canta da dio del falsetto e il pezzo è talmente forte che persino la ricetta del risotto ai porcini cantata da una meravigliosa Paola Folli diventa una perla. Diventerà un classico live degli EelST.
“She wants” sarebbe stata la canzone ideale per rappresentare l’Italia all’Eurovision Song Contest (parola di Otar Bolivecic), altro che quella lagnetta cantata dalla Francesca Michielin. Un grandissimo Sergio Antibiotice realizza il sogno da sempre frustrato di Rocco Tanica: fare una canzone sulla sua dolce ossessione del posterior. Una ballata di sapore wonderiano di grandissima classe.
“Parla come mangi”, come già detto, è un rockettone potente e trascinante. Altra canzone che dal vivo farà saltare schiere di fans vecchi e nuovi del complessino. La lunga sequela di termini inglesi sciorinati a fine pezzo da un Mangoni in gran forma è talmente divertente che non si riesce a “skippare” nemmeno al ventesimo ascolto. Prisencolinensinainciusol!
“Il mistero dei bulli” è uno dei punti più alti del disco. Brano scritto oltre 20 anni fa e noto ai fans come una oscura leggenda dal nome in codice “Il ragazzo della via Gluteo” o semplicemente “Gluteo”, vede finalmente la luce arricchito da un testo ricco di sottigliezze, metatesti e giochi di parole nella migliore tradizione EelST di scuola confortiana.
“China disco bar” apre il capitolo del disco dedicato alla Milano di oggi, cosmopolita (a prevalenza sino-lumbard) e caotica come ogni metropoli europea moderna che si rispetti. Il pezzo soffre un po’ il posizionamento dopo l’inizio strepitoso dell’album, ma ne esce tutto sommato bene. Ballabile con gusto.
Su “Il quinto ripensamento” avevo sinceri dubbi. Dopo averla vista e sentita eseguita dal vivo a Sanremo, me ne sono innamorato follemente. Il testo è molto più sottile, pungente e profondo di quanto non appaia in superficie. È una sorta di “Rapporti psicologici nei rapporti tra maturi uomini e mature donne”, in cui la dirompente carica dei vent’anni lascia il posto al gusto dolce-amaro della midlife, accompagnato da uno dei grandi brani pop della musica classica nella sua meravigliosa versione disco anni 70. Straordinaria l’introduzione al pezzo fatta dai Lillo e Greg (grandissimi) di Radio Coatta Classica.
“Bomba intelligente”, come ho già avuto modo di scrivere, vale da solo l’acquisto di 10 copie del cd di FDB. Un pezzo meraviglioso scritto da Francesco “Big” di Giacomo (lo storico cantante del Banco, per chi non lo sapesse) con l’amico Paolo Sentinelli, di cui ha inciso solo la voce su un nastro che è rimasto lì quando Big ha deciso di andare a fare compagnia a Feiez da qualche parte nell’universo. Il fatto che sia finita su questo disco degli EelST grazie all’amico Duccio Pasqua è una cosa che mi riempie il cuore di gioia. Se seguite la storia cantata da “Big” in religioso silenzio e riuscite a non commuovervi durante gli assoli finali del Civas e Mauro Pagani, beh, avete un cuore di pietra.
“Inquisizione” ha il difficilissimo compito di fare riprendere fiato dopo le emozioni di “Bomba Intelligente”, e invece trascina con un’altra botta di groove potentissimo e un testo tra i migliori del disco, non solo per il sottile ma chiarissimo omaggio a uno dei migliori e più famosi sketch dei miei amatissimi Monty Python, ma per il modo in cui affronta il tema dell’oscurantismo religioso. Illuminista e illuminante.
“Ritmo sbilenco” rientra nella categoria della “musica difficile”, così ingiustamente vituperata e di cui gli EelST hanno fornito molte prove sensazionali nella loro carriera. Un prova collettiva di grandissima qualità, puntellata da una superba Paola Folli e arricchita dalla rivelazione al mondo della scoperta della musica “regressive”. A chi mi dice a cosa è riferito lo “A-ha, A-ha” tipico di questa musica, gli offro una birra buona.
“Il rock della tangenziale” è un’occasione persa: il tema della vita alienante passata in coda in macchina avrebbe meritato un pezzo di maggiore spessore. Sarà che non amo J-Ax.
“Cameroon” è la vera canzone “difficile” di questo album. Nel senso che è talmente bella e talmente perfetta nella sua musicale africanità che non sembra essere suonata da musicisti europei. Testo non memorabile, per quanto divertente, ma un ritmo che schiaccia come il piedone di un elefante ;). Non so se sia un pregio o un difetto, a me sembra più un pezzo del Trio Bobo che non degli EelST.
“I delfini nuotano”, a un primo ascolto, potrebbe sembrare una cazzata buttata lì per riempire il disco. E invece è una delle cose più divertenti e intelligenti realizzate dagli EelST nella loro intera carriera. Se qualcuno mi spiega il senso dell’inciso del pinolo, tuttavia, mi fa un gran piacere. Allucinante, ma profondo come il mare.
“Il primo giorno di scuola” è stato – forse ingiustamente – uno dei pezzi che io ho maggiormente criticato dell’intera produzione EelST. Il brano è musicalmente molto bello, l’argomento trattato potenzialmente bellissimo, ma il modo in cui è trattato me lo rende, ancora oggi, francamente insopportabile. Ed è un peccato, un peccato davvero. Ma in un disco così bello fa la sua dignitosa presenza anche questa canzone.
“Vincere l’odio” non ha avuto la fortuna che meritava al Festival di Sanremo. Forse il fatto di essere tornati al festival “appena” 3 anni dopo gli strepitosi show offerti con la Canzone Mononota (e con Un amore piccolissimo insieme a Rocco Siffredi) ha reso le loro performance di quest’anno “scontate” e ripetitive agli occhi del grande pubblico. Ma il pezzo resta a mio modo di vedere fantastico, una fenomenale parodia dei medley di successi di cantanti agé che si vedono in continuazione in tv, con gli applausi che scattano quando il pubblico riconosce la vecchia hit dopo le prime note. Troppa sottigliezza, forse, per la platea televisiva sanremese. Una sfida persa solo in apparenza: forse non resterà nell’immaginario collettivo come “La terra dei cachi”, ma “Vincere l’odio” resta un piccolo gioiello. Chapeau.
Elio e le Storie Tese Figgatta De Blanc Hukapan 2016
Da quando ho iniziato una vita sociale autonoma (dalla quarta elementare, diciamo…) ci sono sempre stati dischi che in un modo o in un altro hanno cambiato la mia vita, o ne hanno accompagnato i mutamenti a tal punto dall’esserne diventati l’inseparabile colonna sonora. "The age of plastic" dei Buggles; "The man machine" dei Kraftwerk (sì, a 11 anni impazzivo per i Kraftwerk!); “Tango” e ancora più “Aristocratica” dei Matia Bazar; “Pyromania” dei Def Leppard; “Master of Puppets” dei Metallica; “Elio Samaga Hukapan Kariyana Turu”; la discografia intera, riedita, di Rino Gaetano; “Grigio” dei Quintorigo; “Socialismo Tascabile” degli OfflagaDiscoPax; “Conservare in luogo fresco e asciutto” di Angelica Lubian. Ognuno di questi, per tanti motivi diversi, ha un posto fondamentale nella mia vita. E ce ne sono decine di altri, ma questi sono i primi che mi sono venuti in mente.
Ora, non so se “Glamour” de I Cani sarà davvero il prossimo di questa lista, ma è certamente un ottimo candidato. È un disco che ho scoperto per caso, per via del fatto che lo ha prodotto (magnificamente, lasciatemelo dire con orgoglio di fan) Enrico Fontanelli degli Offlaga. Ascoltato una prima volta per curiosità, una seconda per interesse, una terza per stupore, una quarta per incredulità, una quinta per compiacimento, una sesta per apprezzamento, una settima per iniziarne a carpirne i testi, una ottava per iniziarne ad impararne i testi, una nona, una decima e via dicendo… fino ad arrivare a sentirlo per intero una o due volte al giorno da oltre un mese a questa parte. Il bello è che, fino allo splendido concerto di qualche giorno fa al Circolo degli Artisti, non avevo mai ascoltato il loro primo disco (“Il sorprendente album d’esordio de I Cani”, del 2011), perdendo quindi una serie di riferimenti, atmosfere, citazioni che collegano in modo strettissimo i due lavori di Niccolò Contessa e dei suoi compagni di viaggio.
Ciononostante, ho trovato “Glamour” un disco meraviglioso, ascolto dopo ascolto. Bello da un punto di vista musicale, perso tra rock elettronico con assonanze punk e cantautorato intergenerazionale. Bello da un punto di vista narrativo, dove poche parole dipingono sempre immagini precise e taglienti come fogli di carta. Bello da un punto di vista emotivo, perché, sebbene Contessa abbia ben 17 anni meno di me, è capace di trasmettermi sensazioni che sento parte del mio vissuto, nonostante esso sia comunque lontanissimo dal suo.
I circa 16 minuti che vanno dalla traccia 2 alla traccia 5 sono i migliori che io abbia ascoltato in un disco prodotto in Italia da molti anni a questa parte. I 4 pezzi in questione sono 4 capolavori: “Come Vera Nabokov” è un'ode all’amore e al bisogno dell’altro; “Corso Trieste” è un inno transgenerazionale che ha la forza di fare tornare in chiunque la ascolti la nostalgia del tempo in cui si era un quindicenne “davvero duro con problemi seri” (voglio vedere se dopo averla ascoltata un paio di volte non griderete anche voi “l’unica vera nostalgia che ho” con gli occhi umidi e la voce roca); “Non c’è niente di twee” ti trascina a ballare nel corridoio di casa e coglie in castagna soprattutto noi, generazione di quarantenni che nei social network è andata quasi senza eccezione a cercare le tracce dell’adolescenza perduta e rimpianta; “Storia di un impiegato”, titolo quasi sacro nella storia della canzone italiana d’autore, onorato in maniera eccezionale in un pezzo che se lo sentirete dal vivo non potrà non trascinarvi a pogare con ragazzi che potrebbero essere i vostri figli. Ma anche la seconda parte del disco è sorprendentemente bella: il disco non cala mai di tensione e tiene inchiodati fino alla divertentissima ghost track “2033”.
Contessa ha un altro pregio lirico davvero notevole: quello della capacità di “mantrizzare” un verso, ossia saper scegliere la frase chiave del testo di un pezzo e trovare il modo di ripeterlo ostinatamente fino a farlo diventare qualcosa a metà tra l’inno e la preghiera. Oltre che nella già citata “Corso Trieste”, questo è evidentissimo nel finale di “FBYC”. Non riuscirete più a toglierveli dalla testa, garantito.
Per me, “Glamour” è di gran lunga il disco dell’anno. È vero, non ascolto più tanta musica come un tempo, i nomi della maggior parte degli artisti indie italiani e stranieri mi sono del tutto sconosciuti e forse sono anche diventato vecchio, un po’ emotivo e piuttosto rincoglionito. Ma vi giuro che dopo averlo ascoltato in streaming (basta cliccare play sulla prima finestra che vi appare qui sotto e potete sentirlo per intero!), appena avrete occasione lo comprerete. Perché questo è uno di quei dischi che vale ancora la pena di possedere su un supporto fisico.
Come spesso mi succede, verso la fine dell’anno mi capitano tra le mani (e tra le orecchie) le cose musicali più interessanti.
Comincio da un disco che aspettavo da molto tempo, qualche anno ormai… Ammetto subito di essere prevenuto in senso positivo riguardo questo artista, che ho avuto la fortuna di conoscere personalmente in uno strano momento della sua vita, in cui faceva base a Roma e cantava ogni tanto in giro per alcuni locali, illuminandoli ogni volta con la sua formidabile presenza scenica e la sua sorprendente potenza vocale.
Un giorno, poi, com’era apparso, Percival Duke è sparito di nuovo, tornato nella sua patria d’adozione, quella Germania in cui era approdato parecchi anni prima, lui statunitense texano con sangue nativo americano nelle vene e uno spirito libero decisamente incompatibile con il "clima" dello stato dalla stella solitaria.
In Germania Percival partecipa al talent show The Voice of Germany, dove le sue performance live di pezzi come Seven Nation Army dei White Stripes e soprattutto Hedonism degli Skunk Anansie entrano nelle classifiche ufficiali degli store digitali, aprendogli la strada per la pubblicazione del suo primo album, Never Shut Up!, che da pochi giorni ho finalmente per le mani.
Percival Duke è a mio modestissimo avviso un artista incredibile, un cantautore sensibilissimo e un rocker spaccaculi di primissimo ordine. Never Shut Up! è un concentrato di queste sue qualità; il disco è stato interamente registrato live in studio, per rendere al meglio quella che resta indubbiamente la sua migliore dimensione artistica. È un album che ti “taglia come un coltello”, ma di fronte al quale non si riesce a fuggire, autobiografico come ogni album d’esordio che si rispetti, ma le cui storie narrano di percorsi umani in cui è facile identificarsi e che mettono voglia di passare una serata seduti a chiacchierare con lui, davanti a un buon bicchiere di vino o di birra.
La sua musica è un rock essenziale, diretto, che sa spaziare dai colori tenui a quelli graffianti e vibranti, con una spiccata tendenza al pop, dove per pop intendo la capacità di arrivare immediatamente alle orecchie e al cuore di chi lo ascolta e lo guarda.
È un album in crescendo, con un livello qualitativo molto alto che prende il decollo di pezzo in pezzo; segnalo il singolo “The Knife”, impossibile non canticchiarne il refrain già dopo il primo ascolto; “NNNN” (che sta per NeoNaziNextdoorNeighbour), probabilmente il suo pezzo che amo di più, tra i primissimi che gli ho sentito cantare dal vivo; la toccante “His Majesty”, dedicata a tutti coloro che da bambini hanno subito abusi in famiglia; la conclusiva “Big Girl”, che continua a torcermi le budella ad ogni ascolto.
Percival è pronto a conquistare il mondo: volete lasciarvelo scappare così?
Il mondo, si sa, è pieno di rompicoglioni. Le possibilità di incontrarne sul proprio cammino è direttamente proporzionale al mestiere che si fa, a quanto si è noti, a quanto ci si espone al pubblico. Alcune categorie professionali, come i politici, scelgono l’esposizione mediatica per cercare consenso e voti; altre, come gli artisti che lavorano nello show-biz, lo fanno per ampliare il proprio pubblico di riferimento e quindi la platea dei potenziali acquirenti di biglietti di concerti e spettacoli, merchandising, al limite persino dischi.
Quindi se la propria professione, anche superati i 50 anni, resta quella di fare il musicista e di apparire sui media per promuovere in qualche modo la propria immagine, è inevitabile che nella cerchia dei propri “fans” si verranno a trovare anche persone che fanno della raccolta di immagini registrate con i moderni mezzi multimediali una vera e propria ragione d’essere. Può non piacere, ma fa parte del gioco e va accettato con un sorriso e con tanta, tanta pazienza. A meno che non si scelga una strada tipo J.D.Salinger o Mina, opzione dignitosa e con alcuni indubbi svantaggi, ma sempre considerabile.
Io sono ancora tra quei residui romantici che crede che il rapporto tra artista e fan costituisca la migliore base per la creazione di un pubblico fedele che ti seguirà sempre e comunque. È questo, del resto, uno dei motivi che mi ha legato per tanti anni, quasi 25 ormai, a Elio e le Storie Tese. E sebbene questo rapporto si sia obiettivamente già affievolito negli anni, anche e soprattutto per l’intervenuta assenza di una figura di intermediazione tra band e fans (soprattutto cosciente ed entusiasta del suo ruolo), devo dire che mi ha molto colpito la presenza nel nuovo album degli EelST di ben due brani in cui si inveisce contro questo aspetto dell’appartenere (per scelta propria, è sempre bene ricordarlo) a una categoria professionale di persone esposte, e quindi note, e quindi soggette al desiderio di essere oggetto di foto e video da parte dei fans… oppure oggetto delle attenzioni di gente che a sua volta caga il cazzo per professione e cerca in ogni modo un contatto con l’artista famoso.
È un tema molto riconoscibile, quello dell’insofferenza, ne “L’Album Biango”, settimo lavoro di inediti in studio degli EelST in 24 anni di carriera discografica. Non solo nei due pezzi a cui ho fatto cenno sopra (“Lampo” e “Il Tutor di Nerone”), ma anche in altri pezzi come l’osannato singolo apripista “Complesso del Primo Maggio” o la sanremese “La Canzone Mononota”, in cui oggetto del malcelato fastidio della band sono in varia misura colleghi musicisti e altre persone impegnate nello stesso campo professionale; oppure in “Una sera con gli amici”, in cui si constata un po’ catalanamente che gli amici son sempre pronti a (s)parlare alle spalle degli assenti.
Il disco, complessivamente bello e gradevole da ascoltare, in verità di totalmente inedito ha abbastanza poco, specie per chi ha visto la band dal vivo almeno una volta negli ultimi due anni. Oltre ai brani presentati all’ultimo festival di Sanremo, di cui ho già parlato qui, nell’album trovano posto pezzi già eseguiti dal vivo: la bellissima "Come gli Area", introdotta da un pezzo strumentale suonato dagli stessi Area, intitolato enigmisticamente (nel senso della Settimana Enigmistica) “Reggia (base per altezza)”, che paradossalmente è a mio parere il momento più emozionante dell’intero lavoro; "Enlarge (your penis)", pezzo dalla struttura musicale davvero considerevole, ma un po’ impoverito da un testo il cui tema mi sembra affrontato largamente fuori tempo massimo; "Il ritmo della sala prove", simpatico amarcord dei garage days della band, impreziosito dall’armonica del Puma di Lambrate.
Il resto, ciò che è del tutto inedito, che per un vero fan rappresenta il principale motivo di gioia nel momento dell'uscita di un disco nuovo, scivola via senza grandi sussulti, purtroppo. Oltre alle già citate "Lampo", "Il tutor di Nerone" e "Una sera con gli amici", non mi hanno entusiasmato né l'auto-cover "Amore amorissimo" né “Lettere dal www”, blanda introduzione a “Enlarge” che suscita impietosi paragoni al gusto di sfacciottino di Papà Barzotti.
Discorso a parte merita, a mio modestissimo avviso, "Luigi il Puglista", brano dalla classica struttura di canzone melodica sanremese, scritto suonato ed arrangiato così bene che, come mi ha detto un caro amico, se lo avesse cantato Tiziano Ferro (con un testo diverso, ma non necessariamente) sarebbe rimasto in classifica un anno intero senza problemi. Se poi questo sia un pregio o un difetto lo lascio decidere a voi: non c'è dubbio però che il pezzo stia una bella spanna e mezza sopra gli altri.
Infine merita menzione "A Piazza San Giovanni", interpretata con meravigliosa enfasi finardiana da (toh!) Eugenio Finardi, che contiene quello che per me è il verso più bello dell'album: "...perché il biglietto del concerto del primo maggio è un omaggio.".
Dei 70 minuti complessivi del cd, tolti i circa 13 minuti di ghost track e un 6/7 minuti totali di intermezzi (sui quali non mi esprimo per carità di patria), restano una cinquantina di minuti di produzione; dieci minuti per ogni anno trascorso dalla pubblicazione di Studentessi. Non voglio farne necessariamente una questione di quantità, ma è un parametro che indica chiaramente il livello di priorità che un album di inediti in studio riveste in questi anni per i componenti degli EelST.
Termino queste righe con un auspicio: ieri, durante la conferenza stampa di presentazione del disco, Elio ha letto una lettera di Rocco Tanica, da qualche settimana assente sia durante i concerti (vi assicuro che la tastiera montata e vuota sul palco del PalaBAM di Mantova dove li ho visti sabato scorso faceva davvero impressione) che durante gli altri appuntamenti pubblici della band. La letterina dice (la riporto così come pubblicata sul sito di Rolling Stone Magazine): “Cari tutti, vorrei spiegare la mia assenza da concerti ed eventi promozionali. Vorrei precisare che non ci sono contrasti con i miei amici e colleghi. Ma solo la necessità di un periodo di tempo da dedicare esclusivamente a questioni personali e private per me importanti. Conto di affrontare nuove mirabolanti avventure insieme al miglior complessino che io conosca: i Rolling Stones. Se mi prendono. Ma anche gli Elio & le Storie Tese vanno bene lo stesso”.
Ecco, io spero davvero che i Rolling Stones non prendano Rocco Tanica tra le loro fila! Anzi, vorrei rivolgergli un caloroso appello: non farlo Rocco, mandali affanculo, gli Stones! Elio e le Storie Tese senza di te sono come una meravigliosa scultura in una stanza completamente buia: sai che è lì, sai che è bellissima, ma senza luce non puoi fare altro che immaginarla!
La gioiosa presenza di Elio e le Storie Tese al Festival di Sanremo di quest’anno, condita dalla vittoria dei premi “tecnici” (premio della critica e premio per il migliore arrangiamento) e dal 2° posto assoluto in classifica, mi porta a fare alcune brevi riflessioni sullo stato dell’arte e della carriera dei miei indiscussi beniamini musicali degli ultimi 23 anni.
Innanzitutto sto rivalutando moltissimo il pezzo escluso durante la prima serata, Dannati Forever, complice un videoclip in salsa Pythoniana semplicemente meraviglioso.
A parte il titolo, che trovo piuttosto brutto, il pezzo è decisamente interessante; rappresenta, in un certo senso, una Terra dei Cachi revisited. 17 anni dopo, gli Elii tornano a Sanremo e raccontano ancora una volta il nostro paese, passato da una possibile dicotomia (Italia sì, Italia no) che lasciava pur tuttavia un margine di speranza, a una semplice, amara, realistica e rassegnata constatazione: andiamo tutti all’inferno, anzi in un certo senso siamo già tutti all’inferno.
Probabilmente Dannati Forever avrebbe meritato migliore fortuna: non dico che avrebbe potuto concorrere per la vittoria finale, ma secondo me nella testa di Elio era questo il pezzo con cui puntare al 4° posto.
Il “problema” è stato che il secondo pezzo presentato, La Canzone Mononota, è talmente geniale nella sua assurdità da arrivare quasi a rappresentare la Summa Teologica della carriera degli EelST. Soprattutto al primo impatto, La Canzone Mononota folgora, sorprende, diverte, esalta. Qualsiasi pezzo avessero presentato accanto a questo sarebbe rimasto schiacciato, inevitabilmente, perché usa un linguaggio multilivello che va molto al di là della sola composizione musicale.
La Canzone Mononota è molto più vicina all’idea di “spettacolo” che non a quello di semplice “canzone”. È un pezzo studiato per stupire, è un coup-de-theatre di altissimo livello, è Petrolini, Brecht, Eduardo, i Monty Python mischiato a tutto ciò che di musicale è stato esplicitamente e implicitamente citato nel pezzo: è la storia di Elio e le Storie Tese condensata in 3 minuti e 38 secondi. Non è un caso, a mio modesto parere, che il videoclip che accompagna la canzone sia esso stesso una rappresentazione visiva di oltre 25 anni di carriera, a tal punto da sembrarmi addirittura un gioioso epitaffio.
L’ho scritto a caldo all’amico Duccio Pasqua: dopo questo pezzo gli Elii sono pronti allo scioglimento. Questo non vuol dire che la storia del simpatico complessino sia ormai giunta al termine, ma certamente – se questo dovesse accadere – chiunque li abbia seguiti per tutta o gran parte della loro carriera non potrebbe restare con l’amaro in bocca, perché, in un certo senso, ora TUTTO quello che dovevano dire come band lo hanno effettivamente detto.
Voglio poi dedicare qualche riga al vero momento “oro” dell’intero Festival 2013: l’esibizione nella serata di venerdì in compagnia di Rocco Siffredi. Lì gli Elii han fatto il vero capolavoro, perché l’intero pezzo è stato un compendio di bravura, classe e ironia. La sola idea che Rocco Siffredi potesse partecipare all’esecuzione di un brano chiamato “Un bacio piccolissimo” poteva portare a due risultati: un disastro totale o un capolavoro assoluto. In quei 4 minuti si sono concentrate come per magia un insieme di bravure molto al di sopra del normale: quella degli Elii è risaputa, ma si è espressa ai massimi livelli anche nella scelta della scenografia “piccolissima” e degli strumenti “piccolissimi”; quella di Duccio Forzano, che ha regalato ai nostri occhi – specie nell’intermezzo centrale – una regia eccezionale, essa stessa citazione di trasmissioni tv anni ’60 (la camera fissa che cambia fuoco per inquadrare alternativamente Elio e Siffredi durante il loro dialogo) che per molti di noi sono solo ricordi di Blob et similia visti e rivisti nel corso degli anni; e la bravura di Rocco Siffredi, perfettamente a suo agio nel ruolo di crooner recitante, trasfigurazione raffinatissima del più “irruento” tra i grandi pornodivi dell’ultimo ventennio. Il video potete vederlo qui, godetevelo!
Bravi, bravi davvero gli Elio e le Storie Tese. Non so se sia stato giusto che alla fine non abbiano vinto il Festival, specie perché le due canzoni arrivate nella terna finale erano davvero, ma davvero brutte. Io mi accontento del fatto che siano arrivati davanti ai Modà.
Io sono un fan degli OfflagaDiscoPax, per cui leggete queste righe sapendo che la mia è, a prescindere, una visione parziale. Sono passati 4 anni dall'uscita di Bachelite, Gioco di Societá è stata un'uscita attesa molto a lungo dal sottoscritto. Attesa ripagata appieno.
GdS è un album bellissimo. Pienamente inserito nella "tradizione" offlaghiana, ma con alcuni segnali di grande novità, specie per quanto riguarda la parte musicale. Carretti e Fontanelli hanno reso ancora piú asciutto il loro suono, dando uno spazio finora mai visto alla ritmica, soprattutto grazie a un uso sapiente ma massiccio della drum machine, contrappunto ideale alla essenzialità dei suoni.
Ci sono pezzi totalmente, completamente ODP, come Respinti all'Uscio, che sembra un'alternate version di Lungimiranza, oppure Parlo da Solo e Desistenza, che evolvono il filone tracciato da Enver e Onomastica. Ma la cosa che mi ha colpito maggiormente, sempre riguardo le musiche, è stata la presenza di atmosfere kraftwerkiane in diversi pezzi, ad esempio in Tulipani, Piccola Storia Ultras, Sequoia, Desistenza. Magari è una suggestione tutta mia, ma ascoltando e riscoltando il cd non potevo fare a meno di ripetermi: "Che bello, sembrano gli Offlaga suonati dai Kraftwerk!".
Citazione a parte per la splendida A Pagare e Morire, che chiude il cd, e per Palazzo Masdoni, che lo apre dopo una breve intro: il lungo finale strumentale non è nuovo nell'opera degli Offlaga, ma in questo caso lascia il tempo di assaporare e assorbire sottopelle la storia di "vitamilitanza" narrata da Max Collini.
Ecco, le storie. Cosa ci narra Max Collini questa volta? In un disco che avrebbe potuto intitolarsi "Affinità e divergenze tra Reggio Emilia e me stesso", il bravo frontman narratore degli ODP ci conduce per mano tra le vie della sua città, come se chi ascolta il disco fosse un amico venuto da lontano, a cui far scoprire Reggio nell'Emilia passeggiando e raccontando storie della propria vita passata, intervallate da confidenze su un presente personale piuttosto ingarbugliato.
Fa eccezione Tulipani, che narra l'epopea di un ciclista olandese che rischiò di morire assiderato dopo una fuga sul Gavia durante il Giro d'Italia del 1988. Già l'idea di un ciclista olandese scalatore è una contraddizione in termini piuttosto clamorosa, il racconto delle sue gesta in quella terribile tappa del Giro è degna del miglior Gianni Mura.
Una piccola nota su una citazione che mi ha fatto felice e mi ha commosso: una frase, tratta da Tannomai, la mia canzone preferita di un gruppo che una ventina di anni fa ho amato alla follia come gli Üstmamó; avere questo amore comune ha confermato ancora una volta le affinità che sento di avere con gli ODP.
Mi ha stupito la scelta di non pubblicare nessuno dei due inediti presentati durante i tour di Bachelite e Prototipo (Isla Dawson e un altro di cui non so il nome), dato che lo spazio - vista la durata del cd di soli 42 minuti - ci sarebbe stato. Ha prevalso la scelta di una fondamentale coerenza stilistica, scelta a mio avviso vincente.
Sono molto curioso di vedere e sentire come suoneranno i nuovi pezzi dal vivo. A chi non li ha mai visti in concerto consiglio di venire al Brancaleone il prossimo 19 aprile (o ovunque vi capitasse di incrociarli). Forse uscirete con la bocca storta, ma potreste incontrare uno degli amori musicali della vostra vita.
Ho scoperto i Musica per Bambini (MxB) da poco tempo, grazie alle Orgiobimbe e agli altri amici che li hanno voluti alla recente Sesta Convention Autoconvocata delle Fave (il cui acronimo non era SCAF, ma sopravvoliamo).
Vederli all’opera dal vivo è stata una delle “prime volte” artistiche più coinvolgenti e sorprendenti della mia vita. Con mezzi tecnici precari e in una situazione palesemente fuori contesto (un megapub in stile bavarese nel centro di Prato, pieno fino all’inverosimile di gente in attesa del concerto della ottima tribute band degli Elio e le Storie Tese) sono riusciti a farmi stare un’ora a bocca aperta, lasciandomi con la voglia di ascoltarli di nuovo e perdermi nelle loro storie fantastiche.
E’ successo poche settimane dopo a Roma, in una bella serata al Circolo Arci Fanfulla, al termine della quale ho chiesto a Manuel Bongiorni, che di MxB è l’anima metallica della marionetta, perché non avessero mai con loro copie dei loro 4 album da vendere dopo lo spettacolo. “Eh, li abbiamo finiti”, m’ha detto nel suo splendido accento piacentino, aggiungendo che non è che abbiano mai venduto più di 1.500 copie di ogni disco realizzato. “Oh, ma se cerchi bene puoi scaricarteli dal mulo o dal torrente, sai?” ha aggiunto. Cosa che, autorizzato dall’artista, ho fatto immediatamente.
Ora, io sono un neofita dei MxB e ne sono talmente entusiasta da averne certamente una visione distorta, ma immaginare che dischi di questa grandezza artistica possano vendere appena 1.500 copie mi ha confermato per l’ennesima volta che l’industria della cultura in questo paese ha l’elettroencefalogramma più piatto del paesaggio d’Olanda. Vi consiglio di cercare ed ascoltare tutti i dischi di MxB, ne vale davvero la pena e raccontano un’evoluzione artistica sorprendente.
Nelle poche righe che seguono voglio spendere qualche parola per “DioControDiavolo ovvero La Girella del Guitto” (DCD), ultimo lavoro finora pubblicato da Bongiorni e compari.
DCD è un concept album visionario e talmente coinvolgente da metterti il desiderio addosso di ascoltarlo in continuazione per cercare di carpirne ogni nota e ogni parola. La narrazione di storie legate ai sette peccati capitali e al loro dominio sull’animo dell’uomo si svolge in un susseguirsi di brani straordinariamente potenti sia dal punto di vista musicale (un misto di elettronica e potentissimo metal d’avanguardia che sinceramente farebbe impallidire mostri sacri di entrambi i generi) che dal punto di vista lirico. Anche per quanto riguarda l'aspetto meramente tecnico, il disco è realizzato in maniera straordinaria, con un impegno, un’attenzione ai dettagli e una pulizia sonora degno di produzioni milionarie.
Quasi tutti i brani sono piccoli capolavori, che rifulgono e vivono di vita propria al di là del contesto in cui sono inseriti. I miei preferiti (attenzione, l’elenco che segue è lungo) sono: Cose da non fare al gatto, Il canto del bidone, Insopportabili limiti umani (tre brani consecutivi, 8 minuti tra i più belli che io abbia mai sentito in un disco), Morto vivo, Oltretombola, Una carriola di carriole (altro trittico stupefacente), Lettere dall’armadio, Non aprite quel pollaio, O Caramellaio, Disputa di sputi.
La prossima volta che vedo Manuel voglio chiedergli perché nelle sue storie ci sia sempre una nota cupa e una palese ossessione per il tema della morte, anche perché sto amando moltissimo il suo modo di raccontarla, esorcizzarla e persino sublimarla. Se un giorno avessi un figlio o una figlia, mi piacerebbe passarci assieme tanti pomeriggi ascoltando e cantando le canzoni di MxB, spogliandomi del mio essere adulto e ponendomi esattamente al suo stesso livello, con la capacità di aprire la mente alle emozioni senza bisogno di sostanze psicotrope. Sono sicuro che ci divertiremmo un mondo.
MusicaPerBambini DioControDiavolo ovvero La Girella del Guitto 2008, Trovarobato, Bologna.
Pensavo fosse un vezzo autoironico, quello dei Caraserena di definirsi la migliore band italiana dopo Elio e le Storie Tese. Ma, dopo avere visto lo sguardo di Vanni Trentalance – tastierista della band romana – mentre comunicava questo concetto a Rocco Tanica dopo l’eccellente performance dei musici meneghini al Parco della Musica di Roma lo scorso mese, so che l’ammirazione dei fratelli Trentalance e dei loro compagni di avventura verso Elio e soci è vera e profonda.
Fortunatamente, però, la cifra stilistica dei Caraserena è totalmente diversa da quella degli Elii, se si escludono lo smisurato amore per la musica e l’estrema serietà nell’affrontarla, fatti incontrovertibili che emergono con evidenza limpida sia dalle loro performances dal vivo che dall’ascolto del loro eccellente album d’esordio “Ricordarsi di annaffiare”.
La musica dei Caraserena è un pop estremamente elegante con decise influenze jazz, che traspaiono di tanto in tanto arricchendo una trama godibilissima e mai pretenziosa. Le loro canzoni sono scritte in maniera mirabile e suonate benissimo. Cura maniacale dei dettagli, arrangiamenti degni di una megaproduzione, testi accattivanti, intelligenti e mai banali sono le altre caratteristiche di un disco pubblicato esattamente due anni fa e che io ho colpevolmente conosciuto solo poche settimane fa. Anche se, in un certo senso, sono contento di averli incontrati adesso, perché le loro canzoni, insieme a quelle di Angelica Lubian, stanno rappresentando la colonna sonora di questa fase della mia vita, e questo fatto me li fa amare ancora di più.
“Ricordarsi di annaffiare” è un disco bello. Molto bello. E sorprendente.
Undici tracce e una sorpresa che, non appena l’ultima nota si spegne, fanno venire voglia di premere ancora il tasto play per cercare di coglierne ancora un dettaglio, una sfumatura, una suggestione. L’amico Gechino, con il quale ne parlavo qualche sera fa, mi ha detto: “Ma lo sai che a volte i pezzi dei Caraserena sembrano essere scritti da Pacifico?” Spero il paragone non faccia inorridire i fratelli Trentalance, era certamente inteso come un complimento. Io non riesco a trovare paragoni plausibili, ma nemmeno mi interessa. Ho visto i Caraserena dal vivo due volte negli ultimi mesi e la voglia che ho di rivederli ancora dopo avere vivisezionato il loro disco è per me indice sufficiente a definire la stima e l’ammirazione che ho nei loro confronti. E mi piacerebbe che l’energia che scaturisce dalla chitarra di Filippo Trentalance durante i concerti trovasse un po’ più di spazio anche nelle future prove discografiche della band, perché sono elettrizzanti scariche di adrenalina.
I miei pezzi preferiti? “Ricatti esistenziali”, che mi è entrata in testa dalla prima nota, un meraviglioso tormentone; “Il tempo di ora” e “L’implicazione molecolare”, che sono a mio umilissimo parere tra le più belle canzoni d’amore che io abbia mai sentito, “La certezza delle cose” e “Alta pressione”, per tanti motivi troppo lunghi da raccontare qui.
Hanno davanti una bella strada, i Caraserena. E condivido appieno la preoccupazione di Rocco Tanica, che a Vanni Trentalance ha risposto: “E chi sono, i Caraserena? Ah, siete voi? Bene, così so a chi fare spezzare le gambe!”.
Caraserena Ricordarsi di annaffiare Parco della Musica Records – 2008
I Caraserena sono finalisti a Musicultura 2010 e saranno ospiti di (Cara)Serena Dandini a “Parla con me” martedì 9 marzo. Non perdeteli!